Il racconto ottimistico si scontra con il Rapporto Istat 2025, che fotografa una situazione complessa e, per certi versi, preoccupante.
Il racconto ottimistico del governo sulla situazione economica e sociale del Paese fatica a reggere il confronto con i dati contenuti nel Rapporto annuale 2025 dell’Istat, che restituisce un quadro più complesso e, sotto molti aspetti, preoccupante.
È fuori discussione il notevole incremento della popolazione attiva, che ha raggiunto i 23,9 milioni di occupati (+3,9% rispetto al 2019), così come non si mette in dubbio il significativo miglioramento della finanza pubblica, con un indebitamento netto sceso dal 7,2% al 3,4% del Pil, riconosciuto anche dall’agenzia Moody’s che ha rivisto l’outlook da ‘stabile’ a ‘positivo’.
Tuttavia, questi segnali positivi, che dovrebbero riflettersi concretamente nella qualità della vita dei cittadini, non trovano riscontro nelle condizioni delle famiglie italiane, come evidenziato dal rapporto Istat.
Che cosa ha detto l’Istat
Le retribuzioni nominali, pur in crescita, non hanno ancora recuperato il terreno perso rispetto all’inflazione, innescata in particolare dalla guerra in Ucraina. Dal 2019 a marzo 2025, il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti risulta ridotto del 10%.
Preoccupante è anche l’aumento della percentuale di popolazione costretta a rinunciare a visite ed esami clinici, salita dal 6% del 2019 al 9,9% nel 2024, per effetto sia delle liste d’attesa (6,8%) sia delle difficoltà economiche (5,3%).
In questo contesto, la politica della lesina – orientata a gestire il presente senza una visione strategica di lungo periodo – ha privilegiato il risanamento dei conti pubblici, favorito da un incremento delle entrate fiscali di 37 miliardi di euro, derivanti dalla crescita della massa salariale. Ma questo è avvenuto senza una redistribuzione efficace a beneficio del tessuto sociale.
Povertà e industria
L’aumento della pressione fiscale, ora al 42,6%, unito al ridimensionamento della spesa sociale, ha rappresentato la leva attraverso cui il governo ha perseguito la stabilità di bilancio. Il rovescio della medaglia è nei dati sulla povertà assoluta, che nel 2023 ha colpito l’8,4% delle famiglie (pari a 2,2 milioni di nuclei e 5,7 milioni di persone), con un aumento di 2 punti percentuali rispetto al 2014 a livello familiare e di 2,8 punti a livello individuale.
La sostituzione del Reddito di cittadinanza con l’Assegno di inclusione e con il Supporto per la formazione e il lavoro non ha corretto le distorsioni del precedente strumento, che certo necessitava di riforme, ma non di essere cancellato tout court. L’effetto concreto è stato una riduzione della spesa pubblica a scapito della coesione sociale. Una scelta che richiama, per rigore e miopia, le politiche di pareggio di bilancio della destra storica, ai tempi di Quintino Sella — ma in un contesto economico e sociale ben diverso da quello di fine Ottocento.
In un Paese manifatturiero come l’Italia, in cui l’industria e le esportazioni sono state storicamente il motore della crescita, appare azzardato sostenere che “le cose vadano bene”, se la produzione industriale è in calo da 23 mesi e ha registrato nel 2024 una contrazione del 3,5%.
Una visione di futuro
Serve una visione di futuro. È tempo di superare lo stallo che ci immobilizza da oltre 20 anni e affrontare sia le sfide della produttività, per evitare di precipitare in una ‘società dei due terzi’, sia i cambiamenti strutturali dell’economia globale, dettati dalla crisi climatica, dalla transizione tecnologica, dalla digitalizzazione e dall’intelligenza artificiale.
In questo quadro, anche alla luce delle riflessioni emerse nell’assemblea annuale di Confindustria a Bologna, è necessario che il governo esca dalla terra di nessuno e assuma una posizione chiara: sia rispetto alle iniziative estemporanee del presidente Trump, che con la sua guerra intermittente dei dazi rischia di frenare il commercio mondiale, sia in merito alla necessità di una svolta strategica nelle politiche economiche del nostro Paese e dell’Unione europea.
Il Pnrr, pur mobilitando ingenti risorse finanziarie, per due terzi a debito, costituisce una piattaforma utile, ma non sufficiente per affrontare le grandi trasformazioni in atto. Esso non incide in profondità sui nodi strutturali del nostro sistema economico e non è pensato per affrontare gli sconvolgimenti dell’ordine globale, segnati dal declino del multilateralismo e dalla svolta unilaterale della politica estera americana.
Il tempo stringe. L’Italia deve uscire dall’anonimato e affrontare con decisione la sfida del futuro. Va riscoperto lo spirito del miracolo economico, costruendo un patto tra produttori, governo e Parlamento, con l’ambizione di cambiare il Paese e spingere l’Unione europea ad ampliare il proprio raggio d’azione, oltre la gestione burocratica, per diventare protagonista della costruzione del futuro.