Articolo tratto dal numero di giugno 2025 di Forbes Italia. Abbonati!
I paesi in via di sviluppo hanno un vantaggio: possono succhiare tecnologia da chi è più avanti di loro. È stato così per storie economiche di grande successo. Alcuni esempi: Hong Kong, Corea del Sud, Singapore, Taiwan e il caso più eclatante, la Cina. Vent’anni fa gli ingegneri di auto tedesche ridevano dei prototipi disegnati dai loro colleghi cinesi. Sembravano ritagliati da pubblicità di macchine occidentali. Ma oggi le parti si sono invertite. È l’Europa il continente in via di sviluppo. Rimasta indietro nei motori elettrici, ha capito che, se vuole sopravvivere, deve fare ciò che un tempo facevano i cinesi: copiare.
La strategia non è più solo quella dei dazi – che comunque sono stati alzati fino al 45% sulle auto elettriche cinesi. In un suo ultimo piano d’azione, la Commissione europea propone di obbligare le aziende cinesi che entrano nel mercato Ue a costituire joint venture con aziende europee o a concedere in licenza parti della loro tecnologia. La stessa strategia adottata tempo fa da Pechino: assorbire tecnologia straniera, offrendo in cambio l’accesso al proprio mercato. L’Europa resta un grande sbocco e la Cina ha capacità produttiva in eccesso. Tenere insieme queste due variabili potrebbe essere una linea più efficace del protezionismo cieco in stile Donald Trump.
Proprio l’ondata dei dazi di Trump ha reso ancora più forte la pressione a collaborare su Cina ed Europa. Il timore di funzionari e uomini d’industria europei è che i dazi americani, bloccando l’export verso gli Usa, possano aggravare l’eccesso di capacità produttiva di Pechino e scatenare una valanga di esportazioni cinesi in Europa. La rincorsa europea si gioca in alcuni settori chiave per il futuro dell’automobile: software, batterie e sistemi di guida autonoma. Un ingegnere tedesco, di recente, ha raccontato al Financial Times che il sistema operativo di un’ipotetica auto ideale della sua azienda ricalcava punto per punto funzionalità già annunciate da produttori cinesi. Volkswagen, Mercedes-Benz, Stellantis e Bmw hanno tutte firmato intese per accedere alla tecnologia elettrica sviluppata in Cina.
La cosa stupefacente è che quelle cinesi sono aziende giovani che in pochi anni sono passate avanti a chi tradizionalmente aveva dominato l’industria. I produttori europei sono in difficoltà in larga parte perché i cinesi hanno cominciato a comprare auto locali. Dal 2020 gli europei hanno perso un terzo della loro quota di mercato in Cina. Nessun paese simboleggia meglio della Germania il ribaltamento di quest’ordine – e non solo per quanto riguarda le auto. La strategia di sviluppo della più grande economia europea è stata questa: esportazioni in Cina, energia a basso costo dalla Russia e sicurezza garantita dall’America. Uno dopo l’altro questi capisaldi sono venuti giù. Volkswagen è stato a lungo il marchio più venduto in Cina, ma nel 2023 è stata superata da Byd, un produttore domestico che ha iniziato a costruire auto solo nel 2005 – una delle sue ultime innovazioni è una ricarica elettrica ultra veloce: 400 chilometri d’autonomia in cinque minuti.
Anche a occhi distratti la capacità cinese risulta impressionante. Un’auto a batteria come il modello base della Xiaomi Su7 costa in Cina l’equivalente di 25mila euro. Disegno sportivo (anche se anonimo), 300 cavalli, accelerazione da 0 a 100 in poco più di cinque secondi. In Europa, più o meno con gli stessi soldi, si compra una Panda elettrica. È solo questione di costi più bassi? Quanto guadagna un operaio cinese? Secondo la China Automotive Talents Research Association, un operaio Tesla può guadagnare da 785 a 1.200 euro lordi, mentre la media nel settore è di circa 700 euro. In Ungheria la media è di 1.200 euro. Dunque in Cina i costi sono ancora inferiori – non solo per i sussidi governativi, ma anche perché tra i produttori locali c’è una concorrenza spietata. Questo ha spinto le case automobilistiche a essere più efficienti, cercando di controllare tutte le fasi della catena del valore, dai metalli alle batterie.
Gli analisti della banca Ubs hanno smontato un modello Byd del 2022 scoprendo che circa tre quarti delle componenti erano state prodotte internamente. Ma la propulsione cinese non è solo una questione di costi. I produttori emergenti si muovono con l’agilità di startup, avverte Christoph Weber, a capo delle attività in Cina del gruppo svizzero di software ingegneristico AutoForm. In Cina, racconta Weber, manager come William Li (Nio) e Joe Xia (Jidu Auto) partecipano a riunioni di design ogni settimana e prendono decisioni al volo. Il risultato? I cinesi sviluppano nuovi modelli in un anno, contro i quattro richiesti dalle più lente e burocratiche case europee.
Nel 2023 Volkswagen ha investito circa 700 milioni di euro nella cinese Xpeng, acquisendo il 5% delle quote societarie e un posto da osservatore nel cda – la prima auto del gruppo disponibile in Italia (a giugno) sarà la crossover G6, concorrente diretta della Tesla Model Y, l’auto a batteria più venduta in Europa. Oggi centinaia di ingegneri Volkswagen lavorano fianco a fianco con colleghi di Xpeng per assorbire il know-how sulla smart mobility. Una collaborazione che si aggiunge a quelle tra Mercedes-Benz e Hesai, Stellantis e Leapmotor, Tencent e Toyota, Bmw e Huawei.
Dopo aver chiuso una partnership per fabbricare e distribuire il marchio Jeep in Cina, Stellantis ha scommesso direttamente sull’acquisto di un produttore locale. Obiettivo: portare auto cinesi in Europa e, al tempo stesso, acquisire competenze nei motori elettrici. Lo scorso anno ha investito 1,5 miliardi di euro nel 20% di Leapmotor, ottenendo i diritti esclusivi per costruire e vendere le sue auto fuori dalla Cina. Oggi Leapmotor è presente in 13 mercati europei, con 200 concessionari. Il suo modello T03 è un incrocio tra una Panda e una Cinquecento. In Italia costa circa 19mila euro. Anche la società cinese ci guadagna: l’accesso alla vasta rete di distribuzione e post-vendita di Stellantis le consentirà di crescere più rapidamente al di fuori della Cina. Se le vendite in Europa andranno bene, Stellantis pensa di poter usare capacità di produzione rimasta ferma, evitando chiusure di fabbriche politicamente controverse.
“Le case automobilistiche cinesi avranno il 10% del mercato europeo tra pochi anni”, aveva detto Carlos Tavares a ottobre, quando ancora era a capo di Stellantis. “Quindi, se i cinesi vendono 1,5 milioni di auto, ciò equivale a sette stabilimenti”. Poi, a dire il vero, la partnership si è un po’ inceppata. L’assemblaggio della piccola T03 in Polonia è stato interrotto – il motivo, anche se non ufficiale, è l’irritazione per i dazi caldeggiati dalla Polonia ai danni delle auto cinesi. Ora il gruppo vuole far ripartire la produzione entro il terzo trimestre del 2026, ma in qualche altro paese europeo, forse la Spagna (secondo fonti Reuters).
L’altro accorgimento europeo sarà probabilmente quello di rimandare a oltre il 2035 lo stop alle vendite di nuove auto a motori endotermici (benzina e diesel), alleggerendo così la concorrenza cinese nell’elettrico. Il divieto era stato approvato dalla scorsa commissione von der Leyen, ma ci si sta rendendo conto che per le nostre capacità industriali sarebbe eccessivo.
L’ultimo punto è capire cosa pensano i cinesi del drenaggio della propria tecnologia. Le aziende occidentali che in passato si preoccupavano del furto di proprietà si trovano ora nella situazione opposta: sono i loro interlocutori in Cina a nutrire timori simili. Secondo fonti del settore, Pechino pretende garanzie che impediscano alle tecnologie sviluppate in Cina di finire in Europa tramite accordi di cooperazione. Due persone informate hanno raccontato al Financial Times che le autorità cinesi starebbero anche bloccando l’approvazione di una fabbrica Byd in Messico, temendo che i segreti delle auto intelligenti possano migrare verso gli Stati Uniti. C’è poi il rischio che pezzi e software cinesi integrati nelle auto europee scatenino grane se i veicoli varcano l’Atlantico – l’amministrazione Trump potrebbe chiedere agli europei di ridurre al minimo ogni scambio tecnologico con la Cina. Ma nonostante la tensione, dirigenti e analisti scommettono su un compromesso: Bruxelles ha bisogno di competitività, Pechino di nuovi sbocchi per il suo eccesso produttivo. Collaborare, prima o poi, sarà inevitabile.
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